sabato 14 novembre 2009




Chi ci mandò a Nassiriya senza dirci che lì si era in guerra?




AURELIANO AMADEI: TRE ANNI DOPO CHIEDO VERITA'



di Pino Finocchiaro *




"Tre anni dopo, sembrerebbe tempo di tirare le somme. Ci sono bilanci positivi e ombre da dissipare. Positivo sta nel fatto che l'informazione sulla tragedia di Nassiriya sta iniziando a mettersi in moto. Ci sono stati alcuni mezzi di informazione, come voi di articolo 21, che hanno iniziato presto a raccogliere segni di malcontento tra i familiari delle vittime e i sopravvissuti della strage. Altri iniziano a farlo adesso, tre anni dopo".



Aureliano Amadei, aiuto regista, unico civile sopravvissuto alla strage della base Maestrale, celebra i tre anni di una nuova vita con in braccio la figlioletta nata da pochi mesi: il ché è già un bel miracolo dopo quella deflagrazione che lo fece volare in aria. Era stato un attore acrobata, in pochi secondi si ritrovò vivo ma zoppicante. Aureliano, porta ancora i segni di quell'urto, zoppica ancora. Ma il suo passo artistico si è fatto spedito.




Il libro "Venti sigarette a Nassiriya" scritto con Francesco Trento è stato accolto bene dalla critica e vende in libreria. Adesso Aureliano lavora alla sceneggiatura di un film che potrebbe essere prodotto dalla Rai. Ma Aureliano, tre anni dopo, la strage in cui perse la vita il suo produttore esecutivo, Stefano Rolla, chiede solo verità. Vuol sapere chi e perché li mando a Nassiriya senza informarli della guerra incombente. Vuol sapere come mai tra i produttori del film che avrebbero dovuto girare si trovava un vecchio arnese dei servizi come Achille De Luca, recentemente arrestato insieme al presunto re Vittorio Emanuele nell'inchiesta di Potenza?



Il clima informativo dei primi giorni era pesante.




"Nei primi giorni si faceva finta di niente. Subito si è prospettato che le difese della caserma fossero inadeguate ma non se ne è parlato sino a pochi mesi fa. I carabinieri mi avevano detto che lo sapevano pure i sassi che sarebbe accaduta la strage di Nassiriya. Parlavano di scontri a fuoco prima dell'attentato mentre in Italia si parlava di un clima sereno. Parlavano di minacce e avvertimenti con tanto di numeri di targhe. Allora, prima di partire, tutto questo non ci stato detto. Quest'anno, invece di pompose cerimonie e parate per ricordare i poveri italiani si inizia a ragionare su quello che è successo quel giorno".



Anche tra i familiari c'è sete di verità.




"Sino a pochi giorni fa ho sentito i familiari dei caduti che ancora chiedono di sapere come sono morti i loro cari. Ancora non ci è stato detto se sono caduti a causa della riservetta o di altre mancanze che questa caserma aveva".



E le vittime civili?




"Ecco, non sono ancora emerse le chiare responsabilità di chi ha inviato una troupe cinematografica in zona di guerra casusando la morte di tre persone, oltre a Stefano Rolla, il capitano Ficuciello e il maresciallo Olla. Ovvero, la nostra scorta. Non è stato chiarito attraverso quale iter sono stati ottenuti questi permessi.



"Uno dei produttori del film, Achille De Luca, è stato arrestato nell'ambito dello scandalo che ha portato in carcere Vittorio Emanuele. Inoltre è emerso che De Luca aveva contatti con i servizi segreti e quindi all'interno del ministero della difesa. Il film poteva contare sul patrocinio oneroso del ministero della difesa. Altri patrocini venivano dai dicasteri degli Esteri e Beni culturali. Certo è strano che uno stato restio a darti un permesso per fare riprese sull'autostrada Salerno Reggio Calabria per i rischi che comporta, abbia concesso a due piccole società di produzione (Matrix e Gabbiano) il permesso per fare un film, non un documentario o un servizio televisivo, in Iraq dove si spara. Sono zone oscure da chiarire".



Sei un testimone privilegiato eppure non tutti giudici che indagano ti hanno sentito.




"La procura militare mi ha sentito. La procura penale no. Abbastanza singolare? Sì, è vero. La mia testimonianza è stata spesso snobbata. Meglio per l'informazione, così non sono tenuto a nessun segreto istruttorio e posso parlarne con la stampa".



Cogli una certa voglia di dimenticare?




"Si è cercato di non parlarne nel periodo immediatamente successivo. Ora che rappresenta meno una minaccia per i vertici che stanno cambiando, si lascia che la verità emerga".



Alessandra Savio, vedova del sottotenente Merlino, invoca per la memoria del marito e dei suoi colleghi il conferimento di una onorificenza militare. Cosa ne pensi?




"Non è stata ancora chiarita la modalità della morte per ognuno di loro e questo ha una ricaduta sulla mancata assegnazione del riconoscimento al valor militare. Si dovrebbe ammettere lo stato di guerra a Nassiriya. Ma i nostri contingenti sono ancora lì. Penso che per le vedove ci sarà parecchio da lottare.



A Nassiriya c'era la guerra o la pace?




"Lasciamo perdere le mie personali impressioni. Sono stato così poco a Nassiriya. Ma ho raccolto molte testimonianze: le caratteristiche sono quelle di una zona di guerra. I nostri militari partecipavano ad azioni di offensiva. Penso alla battaglia dei ponti e alla ripresa della caserma Libeccio. Azioni spesso comandate dall'esercito britannico. I carabinieri sono stati impegnati in scontri a fuoco ripetuti e continui. La raffineria operava sotto scorta del contingente italiano, per un tentativo di guadagno petrolifero. Tutte cose che mi fanno pensare alla guerra non alla pace".
* Intervista realizzata nel mese di novembre 2006






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lunedì 14 settembre 2009


Stragi: Spatuzza parla di Dell’Utri

e i berluscones si arrabbiano

Di Pino Finocchiaro


Il senatore Marcello Dell’Utri è stato citato dal pentito Gaspare Spatuzza negli interrogatori della procura di Firenze sulle stragi e mancate stragi del ’93 a Milano, Roma e Firenze. Questo preoccupa il presidente del consiglio che attacca i magistrati. Mentre l’ex magistrato Luigi De Magistris auspica maggiore sforzo dei magistrati nell'indagare sui rapporti tra Forza Italia e cosche. "Credo - sostiene - che i magistrati debbano fare di più. Non dimentichiamo che Marcello Dell'Utri è un condannato per mafia, ed è il primo consigliere di Berlusconi".

Tutto comincia l’8 settembre a Milano con Silvio Berlusconi all’attacco: “"E' follia pura. So che ci sono fermenti in Procura, a Palermo, a Milano. Si ricominciano a guardare i fatti del '93, del '92, del '94... Mi fa male che queste persone pagate dal pubblico fanno queste cose cospirando contro di noi che lavoriamo per il bene del Paese''.

Ma la procura di Palermo non indaga e non ha competenza sulle stragi del 92-93. Il procuratore di Palermo, Francesco Messineo, di ritorno dalle vacanze interviene sulle polemiche politiche innescate da Berlusconi : "Mi hanno onestamente sorpreso le dichiarazioni di Berlusconi su noi e sulla procura di Milano, perché noi non abbiamo indagini sulle stragi del '92 e del '93". Dice Francesco Messineo e aggiunge. "Quelle indagini sulle stragi di mafia sono di esclusiva competenza di Caltanissetta e di Firenze, noi a Palermo non abbiamo indagini su questi fatti e non potremmo neppure averne - spiega Messineo - Non riesco a leggere a quale tipo di indagine si fosse riferito il presidente del Consiglio nella sua dichiarazione".

Sull'ipotesi di riapertura del fascicolo "Sistemi criminali" affidato ai pm Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato, Messineo ammette: "Abbiamo sì delle indagini alle quali partecipa e collabora il pentito Gaspare Spatuzza ma si tratta di indagini su delitti di mafia avvenuti a Palermo - dice ancora Messineo - Non ha nulla a che vedere con le stragi. Le indagini non sono di nostra competenza. Non so ne abbia Milano. Anche questo non riguarda il mio ufficio".

L'ex boss di Brancaccio, Gaspare Spatuzza, offre una nuova versione della strage di via D'Amelio sulla quale indaga la procura di Caltanissetta. Sulla sua attendibilità i giudici nisseni non si sono ancora pronunciati. Invece, i giudici di Firenze che indagano sulla strage di via dei Georgofili, cinque vittime, ritengono Spatuzza credibile ed hanno chiesto per l'aspirante pentito il programma provvisorio di protezione.
Le sue dichiarazioni sui rapporti tra mafia, politica e affari potrebbero aprire nuovi scenari ma soprattutto riaprirne altri giocoforza abbandonati per mancanza di prove e testimoni. Spatuzza, che è tra i killer di don Pino Puglisi, propone una nuova versione delle presunte “coperture politiche” contro le quali i magistrati di Caltanissetta e Firenze si sono imbattuti più volte rimbalzando poi sul classico muro di gomma. Nessun segreto di Stato, segreti di fatto. Ad esempio, per il pentito Nino Giuffré, boss di Caccamo, l’attentato allo stadio Olimpico di Roma doveva essere solo dimostrativo ma vi avrebbero potuto perdere la vita decine di carabinieri. Spatuzza ha una sua idea.

“Per fortuna, quella volta qualcosa non funzionò nei circuiti elettrici del telecomando che avrebbe dovuto far saltare in aria un'auto - una Lancia Thema - con dentro 120 chili di esplosivo. – spiega Attilio Bolzoni su Repubblica - Non ci fu strage. Ma rivela oggi il pentito Gaspare Spatuzza ai magistrati di Firenze: "Giuseppe Graviano mi disse che per quell'attentato avevamo la copertura politica del nostro compaesano".

Di ''momento storico particolare'' parla il figlio di Paolo Borsellino, Manfredi: ''Sembra che lo scenario in cui è maturata la decisione di assassinare mio padre possa schiarirsi
da un momento all'altro grazie a nuove collaborazioni e a particolari forse trascurati dagli investigatori in passato'', in una lettera inviata agli organizzatori del dibattito dedicato alla memoria del magistrato, organizzato a Roma da Atreju 09, la festa dei giovani del Pdl.
Su quel palco sale il presidente dei deputati del Pdl Fabrizio Cicchitto "Nessuno è contro le indagini sulle stragi di mafia. – dice Cicchito, poi precisa - Ma quando si vuole ricostruire un teorema che prevede che nel 1992-93, sia per quanto riguarda Falcone e
Borsellino, sia per quanto riguarda gli attentati di Roma, Firenze e Milano, i mandanti sono stati Dell'Utri e Berlusconi, allora non siamo sul terreno della lotta alla mafia, ma su quello della più volgare strumentalizzazione politica di parte".

La parola ai giudici.

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sabato 8 agosto 2009

Ciancimino, il Tavolino e i Cavalieri


Articolo 21 - Editoriali

Dalla Chiesa, l’Apocalisse dei Cavalieri


di Pino Finocchiaro


Eredita’ cospicua quella lasciata da Carlo Alberto Dalla Chiesa ai Siciliani. Non solo per il sacrificio della vita condiviso con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Non solo perche’ quella strage obbligo’ il parlamento a varare la legge che istituiva il 416 bis, sull’associazione mafiosa. Innanzitutto e soprattutto per aver indicato nel connubio tra affari, politica e mafia il nodo da sciogliere. Perche’ aveva impiegato bene i suoi cento giorni a Palermo, l'ex generale dei carabinieri.


E’ accaduto venticinque anni fa. Un altro secolo, un altro millennio. Ma la breve avventura del generale Dalla Chiesa alla guida della prefettura di Palermo, ha inciso in modo rilevante nei metodi investigativi di questo quarto di secolo che ci separa dall’attentato con cui Cosa Nostra pose fine alla sua intenzione di porre ordine negli appalti siciliani.


"Ogni anno – spiega il presidente della commissione Antimafia, Francesco Forgione - questo anniversario ci ricorda che ci volle il suo sacrificio per ottenere che la legge principale per contrastare la mafia fosse varata dal Parlamento.


“Ancora adesso tutti quelli che lottano contro la mafia possono farlo anche grazie al sacrificio di Dalla Chiesa, che dimostro' gia' all'epoca di aver capito che uno dei fronti piu' difficili da affrontare fosse quello delle collusioni con la politica eche proprio dalla politica non ottenne gli strumenti necessari".


Perche’ il nodo da sciogliere oggi come allora e’ quello del rapporto tra le zone grigie della società e delle istituzioni con il potere surrettizio di Cosa Nostra. Il nodo del riciclaggio dei proventi di droga ed estorsioni in attivita’ imprenditoriali assolutamente lecite. Dagli immobili alle compagnie aeree, dai supermercati alle industrie chimiche, dagli alberghi alle agenzie di viaggi.


Quando Dalla Chiesa giunse a villa Whitaker mise subito all’indice le più grandi imprese catanesi che erano sbarcate a Palermo con il consenso di Cosa Nostra. Un fatto epocale che mostrava la grande adattabilità negli affari dei nuovi vertici della mafia siciliana. Li chiamavano i Cavalieri dell’Apocalisse. A denunciarne i misfatti era rimasto col suo gruppo di “carusi” solo il direttore del periodico ‘I Siciliani”, Pippo Fava, che sarebbe stato ucciso da li’ a poco, nel 1984, proprio per fare un favore ai “Cavalieri”.


Di Dalla Chiesa, cosi come di Fava, nei palazzi dei Cavalieri si mormorava “questi non ci fanno lavorare”. E per lasciarli lavorare in santa pace i vertici di Cosa Nostra non esitarono a farli fuori entrambi.


Per i Cavalieri del Lavoro che reggevano i fili della politica in Sicilia fu pero’ l’inizio della fine. Dopo Dalla Chiesa giunse a Catania un questore, Luigi Rossi, che propose il confino per tre Cavalieri denunciando la loro pericolosità sociale. Come pietra in uno stagno, la richiesta di confino fece mormorare la Sicilia bene. Come, i loro cantieri sono aperti in Africa e Medio Oriente, fanno affari con gli Stati Uniti, possiedono giornali e televisioni private, sono dei benefattori e gli sbirri / prima il carabiniere poi il poliziotto / si accaniscono su di loro? Ovviamente del confino non se ne fece nulla.


Da li’ a qualche anno un giudice catanese avrebbe assolto i Cavalieri dell’Apocalisse con una storica sentenza, negando ogni responsabilita’ penale in quanto avrebbero accettato i contatti con i clan solo per costrizione ambientale.Una costrizione che ne’ un politico come Pio La Torre ne’ un imprenditore come Libero Grassi avevano accettato e per questo furono uccisi da Cosa Nostra.


Il seme della legge La Torre e la volonta’ di Dalla Chiesa diedero i loro frutti. Ci furono altre indagini patrimoniali, ci fu il maxisequestro da cinquecento miliardi contro uno di loro accusato di aver ispirato l’omicidio di Pippo Fava, accusa mai provata in giudizio, e per i Cavalieri di Catania inizio’ l’apocalisse. Alcuni provarono a vendere, altri riuscirono a riciclarsi all’estero. Uno di questi gruppi fini’ negli Stati Uniti tra le ditte che producono apparati di sicurezza nel dopo 11 settembre. Ma fu proprio quell’indice puntato sugli affari da Carlo Alberto Dalla Chiesa a provocare l’apocalisse dei Cavalieri, spesso citati negli atti giudiziari prodotti da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.


Dalla Chiesa si sentiva solo. Lo confido’ a Giorgio Bocca in una delle sue ultime interviste. "Ero in vacanza e il generale Dalla Chiesa mi chiamò: venga a Palermo, devo parlarle. Presi il primo aereo e arrivai in quella palazzina che era il suo quartier generale. Entrai senza che nessuno mi fermasse per un controllo. In quel momento ebbi la percezione di una battaglia persa".


Ma Dalla Chiesa avvertiva quella solitudine come una garanzia. Non andava alle feste per evitare di essere inconsapevolmente attratto in zone grigie e buchi neri della buona societa’ palermitana. Buona ma neghittosa. Dove nessuno parlava di mafia, ma tutti pagavano il pizzo.


Il vicepresidente della Commissione antimafia, Giuseppe Lumia, ricorda che "quando fu ucciso la sua morte fu soprattutto una conseguenza della solitudine in cui si trovo' a combattere contro Cosa nostra. Una solitudine che fu per gran parte responsabilita' del mondo politico. Se allora nacque il 416 bis oggi dobbiamo lavorare perche' le normative sulla mafia siano capaci di contrastarle veramente".


Se oggi gli industriali siciliani prendono posizione contro il racket e minacciano espulsioni e’ anche grazie al sacrificio di Carlo Alberto Dalla Chiesa.


"Oggi – ricorda ancora Francesco Forgione - il suo ricordo deve spingeretutti ad individuare quali nuovi strumenti operativi e legislativi devono essere realizzati: per questo lavoreremo per avere un corpo unico delle norme antimafia, migliorare leggi e procedure per il sequestro e la confisca dei beni e nuove norme sullo scioglimento dei consigli comunali".


L'ex generale dei Carabinieri che era riuscito a piegare le Brigate Rosse nulla aveva potuto contro il patto scellerato tra politica, mafia e affari in Sicilia. Le sue indagini sui grandi gruppi industriali e sulle connivenze con i vertici di Cosa Nostra furono il primo motivo della sentenza di morte decretata dalla mafia.Oggi lo ricordano in molti. Tutti ricordano che dopo l'attentato di Palermo fu varata la legge sull'associazione mafiosa.


Ma contro i kalashnikov di Cosa Nostra lo Stato non aveva concesso a Dalla Chiesa ne' un'auto blindata ne' una vera scorta, ne' i poteri speciali che Dalla Chiesa aveva chiesto sin dalla nomina a prefetto di Palermo. A conclusione di quei cento giorni, ci fu chi fece sparire la sua agenda dallo studio di villa Whitaker, sede della prefettura. A Palermo, capita.
Venticinque anni dopo qualcuno in Sicilia si accorge che la mafia uccide il libero mercato. Dalla Chiesa lo aveva detto inascoltato, venticinque anni fa, un altro secolo, un altro millennio. Poi, lo uccisero.




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lunedì 9 febbraio 2009

Felice Casson, giudice scomodo schedato dai Servizi

Un attacco alla verità

di 

Un attacco alla veritàdi Pino Finocchiaro

Senatore Felice Casson. Dopo anni trascorsi a indagare sui servizi segreti deviati, si ritrova nell’elenco dei giudici schedati e seguiti dai servizi… non deviati.

“Due cose innanzitutto. La Cosa non mi sorprende assolutamente perché ero abituato ad essere controllato anche prima. Tant’è vero che alcuni anni fa, in occasione di una mia relazione fatta a Madrid sui servizi segreti  a livello europeo – avevano partecipato, ricordo, relatori dalla Gran Bretagna, dalla Spagna, Otelo de Carvalho, leader della rivoluzione dei garofani in Portogallo – la mia relazione è finita in sintesi agli atti del Sismi ed è stata trovata durante una perquisizione. Si figuri che controllo c’era…”

- Un controllo… meticoloso…

“Era il tempo di Gladio. Immaginarsi. Addirittura, qualcuno era stato cacciato via per non aver trovato nulla su di me. Lo davo per scontato. Quando si fanno certe indagini da Palermo, a Milano, Venezia, credo che sia scontato che ci siano questi interessi illeciti da parte dei servizi segreti. Prima cosa.

“Seconda cosa. Quel che viene fuori, in maniera più grave, è che non si trattava di una parte deviata ma di un’attività che il Sismi riteneva istituzionale. Qui ripropongo il vecchio dilemma che ho sempre detto: i servizi deviati non sono mai esistiti ma quando hanno deviato nelle indagini sulle stragi lo hanno fatto perché erano istituzionalmente fatti per lavorare così. Quindi, non solo adesso. Anche quando depistavano per le stragi”.

- Emerge che persino i vostri colleghi stranieri venissero sorvegliati…

“Non mi sorprende. Perché se mi controllano a Madrid. Se vanno a Madrid i nostri. Vuol dire che loro sono interessati a questi rapporti internazionali a questi scambi di opinioni o di relazioni in materie sensibili. Viene alla luce un dato che in minima parte conoscevo anche prima ma che davo per scontato in maniera molto ampia. I servizi, dall’epoca del Sifar ai successivi, si sono comportati sempre alla stessa maniera. Sono stati forse più cauti, più attenti. Ma hanno lavorato ritenendo di poter fare sempre quello che volevano. Il problema è che il potere politico non ha mai avuto il coraggio né la forza di riformare seriamente questi servizi cosiddetti di sicurezza”.

- Il dubbio è che lavorino più a favore di un governo, di una parte politica che non dello Stato.

“Non solo. Forse è anche peggio. Nel senso che non è a favore di un governo ma a favore di una parte che può essere al governo, può non esserlo. E quindi di costituire, comunque far parte di una sorta di potere che si ritiene autonomo e indipendente rispetto agli organi costituzionalmente preposti”.

- E’ una sorta di golpe istituzionale. Un golpe freddo.

“ Non uso la parola  golpe perché richiama qualcosa di violento. Direi che all’interno delle istituzioni queste gravissime forme di deviazioni, soprattutto da parte del servizio segreto militare ci sono sempre state”.

- Cosa si può fare? Sia sul piano normativo che del controllo sociale?

“E’ in discussione al Senato la legge di riforma sui servizi segreti. Arrivata dalla Camera dei deputati. Giovedì, fatalità,  la commissione Giustizia ha redatto un proprio parere su questa riforma proponendo delle modifiche. Vengono toccati punti molto delicati su questa riforma dei servizi segreti. Innanzitutto, per quel che riguarda il segreto di Stato, la gestione di questo segreto di Stato. Le garanzie funzionali per gli appartenenti ai servizi e il reclutamento. Bisogna incidere fortemente sul settore reclutamento, sulla formazione di queste persone e quindi su tutta la gestione del personale”.

- Parlando con i pm di Marsala che indagavano sulla strage  di Ustica mi sentii dire che non era mai stato opposto il segreto di Stato. C’è un segreto di fatto ancora più inviolabile?

“Sì. Infatti. Non è necessario che venga opposto. I segreti per risolvere a suo tempo la strage di Bologna, o di Peteano, o di Ustica, non li troviamo in un cassetto. Perché formalmente non esiste un documento dove si possa trovar scritto chi ha usato l’esplosivo, chi ha preparato l’ordigno, chi l’ha portato di qua, chi l’ha portato di là. Il problema è inverso. Il problema è la gestione delle informazioni, delle notizie, dei contatti che si hanno a livello, visto che qui parliamo di stragi, di eversione interna o internazionale”.

- Quindi non è un segreto di Stato, quello di cui stiamo parlando, ma una vera e propria menzogna. Una disinformatia istituzionale.

“Sì. Diciamo che non è soltanto un problema di segreto di Stato. In certe situazioni lo è stato e lo è ancora. Basti pensare al caso Abu Omar o al caso Sgrena-Calipari. E’ assurdo che questo governo si comporti peggio del governo precedente opponendo il segreto di Stato in modo che ritengo assolutamente 
illecito. Vi sono altre situazioni più gravi, di coinvolgimento anche diretto e più profondo dei servizi in cui non vi è il problema di opporre il segreto. Come per piazza Fontana o la strage di Bologna. Può essere opposto su questioni singole. Il problema è più ampio. Più complessivo. Sul comportamento di questi uomini”.

- Nella sua veste di senatore, di esponente di questa maggioranza. Che effetto le fa sapere che gli uomini che indagavano su di lei, parliamo degli ultimi anni, siedono ancora in sedi istituzionali come il ministero della Difesa o palazzo Chigi?

“Questo è gravissimo. Come ho avuto modo di affermare al Senato, in commissione Giustizia. E’ gravissimo. Come è grave il comportamento del governo Prodi sul caso di Abu Omar e Sgrena-Calipari. Credo che ci voglia veramente un ripensamento e una modifica profonda all’interno degli apparati.

“Perché, ripeto e dico, ci sono delle persone all’interno del centrosinistra che hanno paura di qualche cosa. Noi vorremmo sapere di chi hanno paura e di che cosa. Siccome non c’è trasparenza, rimangono questi punti di domanda molto forti e molto pericolosi per le istituzioni”.

- Quindi, il rimedio principale contro questo tipo di inchieste è la sobrietà personale. Insomma, rimanere al di fuori e al di là da ogni tipo di accusa.

“Certo. Il punto è la trasparenza. Di non avere avuto e di non avere problemi. Di non avere nessun tipo di scheletro o scheletrino nell’armadio. Di non potere essere ricattati in nessuna maniera. Credo che non sia un caso che il Sismi avesse steso una rete così diffusa di controlli proprio per cercare di avere notizie da utilizzare in maniera diretta o indiretta. Questo è pericolosissimo. Perché dove non ricevevano notizie vere se le inventavano, creando il sistema delle veline”.

- Tra le persone “monitorate” dalla centrale spionististica di via Nazionale vi erano diversi giornalisti o anche parlamentari che in passato erano stati giornalisti o scrittori. Fa tanta paura la verità in Italia?

“Non è assolutamente un caso. Io definisco il potere giudiziario e il potere dei giornalisti come due colonne di un sistema democratico moderno. Perché sono dei sistemi di controllo, sia sulla politica, sia sulle istituzioni. I giornalisti anche sulla magistratura. Se vengono minate le basi di queste due colonne, vengono minate le basi stesse della democrazia. Quindi, controllare queste due colonne, vuol dire controllare tutto il sistema politico istituzionale”.

- Gli ultimi provvedimenti, incluso il disegno di legge Mastella, non sono a favore dei giornalisti.

“Stiamo affrontando la questione in commissione Giustizia al Senato. Sono relatore di questo disegno di legge. Ho individuato nella mia relazione almeno otto punti critici che vanno verificati. C’è una convergenza, almeno nel centrosinistra, della commissione Giustizia, per una modifica dell’impostazione propria di questo disegno di legge Mastella, sulle intercettazioni e sulla pubblicazione delle notizie. Ci saranno sicuramente emendamenti e delle modifiche in materia. Questo disegno di legge Mastella soffre di strabismo istituzionale. Nel senso che vorrebbe andare a colpire maggiormente l’ultimo anello della catena. Senza rendersi conto o, forse, senza dare tanta importanza al fatto che per quanto tu metta una sanzione più grave e nei confronti del giornalista non eliminerai il rischio della fuga di notizie, se non intervieni sulle fasi precedenti che sono quelle della polizia giudiziaria e della magistratura”.

- Il ddl Mastella si propone di impedire l’accesso ai giornalisti persino alle notizie già note all’imputato. Questo nulla ha che vedere con la riservatezza delle indagini.

“Questo è assurdo. L’ho criticato molto duramente. Come tutti quelli del centrosinistra che hanno fatto una critica dura su questo punto. Sicuramente su questo punto ci saranno degli emendamenti. Perché è assurdo che le intercettazioni anche quando sono già a conoscenza del difensore e dell’indagato magari arrestato, non sono più per definizione coperte da regime di segretezza, non possano essere pubblicate sui giornali. Varrebbe a creare dei privilegi inaccettabili in un sistema democratico come il nostro. Basti pensare alle conseguenze di fatto. Di tante indagini delicatissime in materia di corruzione, crack Parmalat e Cirio, o anche di terrorismo non sapremmo assolutamente niente per anni e anni. Pensiamo ad un’altra vicenda per altri versi differente  come Calciopoli, non sapremmo nulla a tuttora. Perché le indagini sono molto lunghe, l’udienza preliminare è lunga lo stesso, per anni silenzio assoluto. Se un giornalista scrive, viene punito. Credo che non sia accettabile”.

- Il rischio di punizione vale anche per i giudici con questa prima scrittura della separazione delle funzioni fra le carriere di giudicante e pubblico ministero.

“Noi avevamo trovato un intelligente equilibrio istituzionale tra le richieste di separare completamente vite e professioni dei pubblici ministeri rispetto ai magistrati della giudicante e quelle di chi voleva lasciare le cose così come stavano.

“Credo che una forma di separazione delle funzioni sia istituzionalmente corretta, anzi doverosa, bisogna trovare l’equilibrio giusto. A mio parere la commissione Giustizia aveva trovato un sistema equilibrato che potrebbe risolvere i problemi e lo sconcerto determinati nell'opinione pubblica da certi provvedimenti del passato.. Ovviamente, i magistrati resistono. Credo ci sia un po’ troppo corporativismo su questa cosa all’interno della magistratura”.

- Oltretutto, ci sono dei tempi da rispettare. Se non si trova un accordo entro la fine di luglio c’è il rischio che entri in vigore la legge Castelli.

“Nella foga corporativa dei magistrati, qualcuno non se ne rende conto, ci stiamo avvicinando molto rapidamente al 31 luglio e si rischia di far entrare in vigore quella che abbiamo chiamato Controriforma Castelli, perché va contro l’impostazione costituzionale del nostro ordinamento”.

- Quindi, bisogna trovare assolutamente un accordo entro quella data.

“Assolutamente sì. In Senato ci attende una settimana calda. Vedremo a che punto verrà trovato un equilibrio in aula. In questo momento non sono in grado di dare nulla per scontato”.

- Un altro dei punti critici di questo disegno di legge riguardava l’accesso alle funzioni direttive e la loro durata…

“Credo che sia stato superato. Non c’è contestazione da parte della magistratura. Abbiamo creato e stabilizzato il meccanismo di temporaneità degli incarichi. Il sistema di valutazione  del magistrato è demandato comunque al Consiglio superiore della Magistratura. Sono inserite delle norme che impongono al magistrato un aggiornamento professionale costante nel corso della sua carriera. Con dei passaggi, delle valutazioni periodiche. Credo che sia un segno di serietà. Se i magistrati contestano anche questo vuol dire che non si rendono conto quanto sia necessario un clima di serietà… che riguarda tutti quanti. Non mi sembrano assolutamente eccessive queste norme… impongono una maggiore professionalità”.

pinofinocchiaro@iol.it


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domenica 11 gennaio 2009




Manuela Dviri, scrittrice, madre di Ioni, soldato israeliano ucciso in Libano


“Gaza, questa è una guerra inutile”

Intervista di Pino Finocchiaro


“Sapessi cosa ci fanno gli Israeliani”. “Anch’io sono Israeliana”. “No, tu non hai nessuna colpa”.
Manuela Dviri, scrittrice nata a Padova ma Israeliana per scelta crede nel dialogo e non ha mai perso i contatti con un amico palestinese dandone conto in una rubrica sulla Gazzetta dello Sport.

Manuela narra della speranza e del dialogo, che non si spengano mai, che non s’interrompano mai. Manuela è un ebrea che ama Israele e la Palestina. Che ama insomma la pace e odia tutte le guerre. Come quella guerra in Libano, nel 1998, che gli ha strappato il figlio Ioni, vent’anni, soldato dell’Idf ucciso da un razzo mentre indossava la divisa. Una madre che ha replicato pronta alla lettera del capo dello stato gridandogli in faccia. “Sei sicuro che ti ricorderai di mio figlio?”.

E’ il dissenso di un’ ebrea che ama Israele e la Pace. E’ il dissenso di una donna cosciente che questo dissenso è possibile in Israele e nel mondo occidentale ma non sarebbe mai ammesso per la madre di un martire di Hamas. Ed è una differenza importante.

“Questo disastro umanitario era evitabile solo evitando la guerra. In una zona come Gaza è impossibile non uccidere civili”.

“Buona parte della società israeliana si è chiusa in se stessa nella propria sofferenza. Come avvenne per la guerra del Libano nel nord di Israele. Fatica a capire che c’è una sofferenza anche dall’altra parte. C’è una chiusura alla sofferenza dell’altro”.

- Lei ha avuto una reazione diversa. Quando suo figlio è rimasto ucciso undici anni fa in Libano, alla lettera del capo dello stato ha risposto, no grazie.

“Beh, ma io sono una. Altre pensano in altro modo. Pensano che le guerre siano un punto di inizio. Si inizia dalla guerra per andare alla tregua. La guerra diventa un modo per dialogare. Ora stiamo dialogando sparandoci. Io professo il dialogo vero, quello che può essere più difficile, più stressante di quello della guerra. Però costa molto meno in vite umane. Costa molto meno in assoluto. Pensiamo a quello che abbiamo speso per armarci, sia da parte di Hamas, sia da parte nostra - per armarci e per ucciderci - se lo avessimo speso in altro modo, il Medio Oriente sarebbe un altro. Gaza sarebbe un’altra. La vera vittoria sarebbe vedere un territorio come quello di Gaza aperto al mondo. Una striscia lungo il mare piena di alberghi, ricchezza e tranquillità. In questo caso, alla fine, anche il fanatismo musulmano, perché stiamo parlando di Hamas, non di chierichetti. Sono fanatici, fondamentalisti religiosi. Basta guardare come trattano le loro donne. Se ci fosse più ricchezza, più lavoro quel mondo sarebbe diverso. Ci sarebbero più opportunità per le donne”.

- E le donne non riescono a far sentire la differenza.

“Ma no, parlano gli uomini di Hamas, non le donne. Le donne sono solo madri di martiri…”

- E non possono dissentire…

“Ma nessuno può dissentire dalla voce ufficiale. Ricordiamo cosa è successo tra Hamas e Fatah. C’è stata una guerra fratricida. Ricordo di aver visitato in ospedale dei palestinesi di Fatah e parlavano di Hamas molto peggio di come ne parlino gli ebrei. E’ tutto molto complicato”.

- C’è un problema di comunicazione. Al di là delle prese di posizione su Haaretz di Gideon Levy ci sono molti intellettuali palestinesi e israeliani che esprimono dissenso ma le loro voci non giungono sui quotidiani e sui grandi circuiti televisivi.

“E’ vero. I grandi mezzi di comunicazione non hanno notizie. Al contrario di quanto è successo durante la guerra nel Libano, durante la quale i soldati partivano da casa col telefonino in tasca e chiamavano la famiglia e spiegavano dove si trovavano e cosa stavano facendo; quando partivano le critiche nei confronti dei comandanti che dovevano far così, dovevano far colà; stavolta l’esercito è partito preparato. La campagna è stata preparata a lungo, nessuno ha potuto portare niente, nessun telefonino, nessun giornalista, tranne gli embedded, nessuno in realtà è a gaza tranne le troupe televise di Gaza che trasmettono poi le immagini che vediamo. La comunicazione è ben altra. C’è una sorta di censura militare per cui gli stessi esperti politici e militari hanno ben poco da dire. A questo punto l’opinione pubblica è compatta dietro al governo. Compatta con percentuali tra l’80 e il 90 per cento. Tanto per Israele. Le voci contrarie sono poche, si sentono poco. Pochi vogliono ascoltare. Ma ci sono quelli che continuano a parlarsi”.

- E la politica? Come parla la politica?

“Ehh. La politica parla con i missili, con le bombe. Oh, con questo non intendo giustificare quel che sta facendo Hamas. Per carità di Dio. Mai, mai, mai vorrei essere sotto il governo di Hamas. Non lo auguro a nessuno. Però, penso che le guerre siano una barbarie. Soprattutto le guerre inutili come questa. Perché alla fine non potranno ucciderli tutti. Anche andando casa per casa. Quindi, continueranno ad esistere”.

Insomma, forse la tregua è vicina, ma la pace, il dialogo, restano distanti, tanto distanti dal Medio Oriente.

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